Ricordo i tempi in cui i social erano una novità relazionale, un mondo inesplorato dove poter sperimentare e confrontarsi con lo scopo di conoscere persone, cose, luoghi, pensieri.
Poi le piattaforme hanno iniziato a cercare un modello di business e con loro anche noi. Prima cercando di essere riconoscibili nel mare impetuoso di contenuti e poi vendendo questa riconoscibilità, direttamente come account sandwich nelle strade trafficate da follower e indirettamente creando o trasformando professioni sulla presenza online.
Niente di scandaloso, niente di illegale. Solo che da una modalità esplorativa e comunicativa si è passati a una osservativa e informativa. Sempre più dispensiamo opinioni, commentiamo con il solo scopo di esprimere la nostra idea senza voler innescare una discussione, sempre più scriviamo per stupire. Noi che sorridevamo per quel periodo in cui i selfie ci sembravano un vanesio e vacuo tributo all’ego di persone con scadenti capacità di esprimersi in altra maniera, ecco noi siamo finiti immersi in un periodo di selfie scritti, di ritratti di noi stessi vergati con sorrisi di autocompiacimento in 140 caratteri con dietro un paesaggio utile solo come fondale immobile non protagonista.
Come mandrie intruppate in recinti profilati e percorsi hashtag ci ritroviamo a fingere di discutere argomenti organizzati a squadre con spesso il solo scopo di esserci e acquisire punteggio nel grande gioco sociale e magari ritirare il premio di una riconoscibilità menzionata da un media o un personaggio rilevante.
Sono cambiati i social e noi senza grande sforzo ci siamo adattati cambiando il nostro modo di pensare e di agire. L’abbiamo fatto convinti che sia inevitabile, che scrivere ad ogni costo, che essere riconoscibili nello scaffale del mondo sia lo scopo.
Ecco, forse non è così. Forse esistono altri modi, inutili e senza nessuno scopo, forse discutere di fake news e di haters non è più importante di discutere del come si cuoce un uovo o quanto una poesia sia struggente.
Forse riprendere a usare e non farsi usare dalla rete può cambiare davvero la rete.
Perché il modello siamo noi, non lo strumento. Sono i nostri comportamenti a cambiare le piattaforme, sono i nostri contenuti a tratteggiare questo nuovo mondo digitale.
Magari immortalati in uno scatto che ne mostri la bellezza di un paesaggio di infiniti e significativi particolari e non in una sequela di sorrisi inebetiti di fronte alla macchina di piattaforme che ci vogliono solo minatori di emozioni.
[il mio primo tweet]
Comunicare sorridendo, la mia speranza. Dire cose intelligenti, la meta. Inframezzarle di leggerezze, il mio strumento.
— insopportabile (@insopportabile) May 14, 2009